Ho colto al volo un’opportunità offerta dalla scuola elementare che frequenta mio figlio più grande: una visita guidata alla mostra Exodus di Salgado, in compagnia di altri genitori entusiasti.
L’occasione è la Notte dei Musei, il museo è il Mar di Ravenna: ci troviamo tutti, i genitori nella hall del museo. E’ sabato e il tempo è clemente. Ci sono solo due uomini a fare compagnia a ventitrè donne, di cui una incintissima.
La mostra, non nascondiamolo, è molto dura. Dura per chiunque non sia pronto a guardare negli occhi tutte le mille sfumature del dolore che le migrazioni portano con sé.
Per me è stata una meta-mostra: mentre la guida avvertiva della crudezza della sala dedicata all’Africa, io guardavo le mamme africane parte del nostro gruppo che, circondate da bambini piccoli attaccati alle gonne, non piegavano un sopracciglio al racconto degli orrori e delle vicissitudini che, loro, avevano vissuto per prime.
Come può una fotografia impressionare chi le devastazioni le ha provate veramente?
Così nella sala dell’Asia, dove i racconti delle libertà negate nelle isole delle filippine non hanno scosso una mamma locale che guardava con interesse le traduzioni in inglese delle didascalie.
Stessa scena nel conflitto serbo-bosniaco, con bambini biondissimi e madri che sembrano madonne rinascimentali.
Ecco, occhi e sguardi di donne: io ho notato quello.
Donne che coltivano, che consolano, che aggiustano, che confortano, che supportano e che sopportano, nelle foto.
Donne che hanno lasciato un passato alle spalle, ma che anche qui, nel presente, ripercorrono la stessa strada, per dare una possibilità di integrazione ai loro figli ma anche a loro stesse. Che decidono di impiegare un pomeriggio in un museo, in una mostra, di cui oggi non riescono bene a leggere le didascalie. Ma che domani, forse, si.